La Corte dei conti sulla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano sostiene l’Open Access

La Corte dei conti sulla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano sostiene l’Open Access

di Deborah De Angelis

La Corte dei Conti, Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, ha avviato un’attività di controllo sulle “Spese per l’informatica, con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano (2016–2020)”, il cui esito è illustrato nella deliberazione depositata il 22 ottobre 2022.

Nella copiosa relazione che compone la deliberazione è evidenziata l’importanza strategica dei processi di digitalizzazione, rispetto ai quali il nostro Paese sconta ritardi inammissibili, nonostante i considerevoli investimenti già impiegati. In visione, inoltre, dei futuri investimenti EU rientranti nel Recovery Fund, ove il 20% del totale è destinato alla digitalizzazione, si sottolinea la posizione strategica della digitalizzazione del patrimonio culturale nazionale. Le istituzioni culturali italiane sono in una fase di continua evoluzione per rispondere, soprattutto grazie all’accelerazione causata dal periodo di pandemia, all’esigenza di aprirsi al pubblico, anche in ambiente digitale.

La Corte dei conti riconosce come: “La necessità di trasformazione costituisce una sfida ma anche un’opportunità per avvicinare nuove tipologie di utenti e per valorizzare i beni materiali e immateriali che le istituzioni custodiscono e producono.

I soggetti istituzionali coinvolti nel procedimento di controllo e, in particolare, la Direzione generale organizzazione, la Direzione generale bilancio e l’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale (Digital Library), hanno creato una cabina di regia per la raccolta dei dati richiesti. L’indagine della Corte dei conti si è, inoltre, basata sull’esame della ricerca svolta dall’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni Culturali del Politecnico di Milano, ove sono state analizzate le iniziative digitali intraprese nel settore museale. I dati hanno evidenziato come, seppure siano in atto diversi progetti di innovazione digitale, la formalizzazione della strategia digitale non è ancora diffusa e le competenze sul digitale non sono ancora mature. Si è constatato, ad esempio, che nel triennio 2017/2019, l’85 per cento dei musei è presente online, ma solo il 47 per cento ha un sito relativo alla propria istituzione culturale, di cui solo il 41 per cento dei siti è disponibile solo in lingua italiana e il 48 per cento non è compatibile con i dispositivi mobili. Risultano, inoltre, poco diffuse le cooperazioni con altri settori turistici a livello territoriale per facilitare l’individuazione dei luoghi della cultura da parte dell’utente.

Dinanzi, quindi, alle risultanze di una situazione di notevole ritardo nella trasformazione digitale degli istituti culturali, i quali spesso non hanno ancora intrapreso un processo di strategia digitale, la relazione in commento riserva un’attenzione alle politiche di Open Access. Dall’analisi della normativa di riferimento, ivi illustrata, la Corte ha confermato che il potere di decidere sul riuso dei dati spetta all’ente titolare del dato stesso, anche se — viene notato — ciò non consenta all’amministrazione pubblica di adottare comportamenti che impongano vincoli di esclusiva limitanti l’accesso alle informazioni. Ma la Corte prosegue ricordando come “l’amministrazione sia sempre tenuta a rendere disponibile il patrimonio informativo di dati e documenti digitali con licenze di tipo aperto, che consentano il riuso (anche commerciale) e la maggiore elaborazione possibile”. Anche dal confronto con le amministrazioni coinvolte è emersa l’esigenza di un adeguamento dei tradizionali paradigmi proprietari a favore di una visione del patrimonio culturale più ispirata ai canoni di democraticità, inclusività e orizzontalità. Si ricorda come nel mondo la maggior parte degli istituti culturali hanno aderito alle politiche di Open Access per la condivisione delle riproduzioni digitali dell’immagine del bene culturale e come, invece l’approccio, dell’amministrazione culturale italiana si mostri ancora impermeabile al cambiamento del paradigma sollecitato dall’evoluzione tecnologica. L’obiettivo da perseguire anche con il piano di digitalizzazione del patrimonio culturale dovrebbe essere quello di sviluppare la crescita culturale della società e creare un valore a lungo termine.

Su tale punto, è interessante notare come il Ministero della cultura abbia riferito che, dal confronto con il panorama internazionale, risulti che la maggior parte delle istituzioni utilizzi un sistema misto, ove far convivere le istanze del libero riuso con la valorizzazione economica delle collezioni. Ed è questo il percorso che si dovrebbe intraprendere anche nel nostro Paese al fine di sfruttare al meglio le potenzialità delle tecnologie emergenti e il fiorire di progetti di creazione collaborativa per la valorizzazione e condivisione dell’eredità culturale.

Nel Capitolo VI su “I sistemi di digitalizzazione e i risultati raggiunti”, il paragrafo 5 è dedicato al tema dell’“Open Access: resistenze e potenzialità”. La Corte dei conti, dopo aver esaminato la normativa di settore, sottolinea come la titolarità del dato non debba essere il presupposto per l’attuazione di politiche volte ad affermare regole di restrizione all’accesso alle informazioni. In tale senso, avalla la raccomandazione di adottare una licenza aperta che preveda la sola attribuzione della fonte (Creative Commons Attribuzione) contenuta nelle Linee guida dell’AgID per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico. Sul punto, il Capitolo italiano di Creative Commons e Wikimedia Italia, nelle proprie osservazioni alle suddette linee guida, hanno evidenziato che, in assenza di un dato non creativo, e quindi non proteggibile dalla normativa sul diritto d’autore, gli strumenti più adatti per la condivisione di materiale in pubblico dominio siano invece CC0 (dedica al pubblico dominio) o l’etichetta PDM (Public Domain Mark). Per trovare una risposta alle esigenze degli istituti culturali di ricevere crediti sulla provenienza del dato digitalizzato, all’interno della Creative Commons Open Culture Platform, è stato creato un Working Group ”Public domain collections referenced by CC BY to designate collections holders” che ha rilasciato alcune proposte di intervento.

E’ di rilievo evidenziare come l’amministrazione abbia segnalato, tra le questioni ancora aperte, per le quali è necessario trovare una corretta conciliazione degli interessi coinvolti, la non completa armonizzazione di parte della normativa italiana con la legislazione europea. Il riferimento è, in parte, alla ricezione dell’art. 14 della direttiva 2019/790/EU, sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, che libera le riproduzioni fedeli dal vincolo del diritto d’autore e dei diritti connessi, qualora il risultato della digitalizzazione non presenti le caratteristiche della creatività. La norma, infatti, intende rendere libera la fruizione del patrimonio digitalizzato, considerata la non rivalità del “bene comune“ culturale digitale e la convinzione che il libero riuso delle immagini anche a fini commerciali sia un volano per lo sviluppo economico e comporti impatti positivi per le istituzioni culturali nel contesto di progetti destinati alla condivisione della conoscenza, alle attività di studio, ricerca,  libera manifestazione del pensiero ed espressione creativa. Dal questionario sottoposto agli uffici del Ministero risulta che gli stessi siano orientati verso la visione di apertura dei contenuti digitali del patrimonio culturale, per ciò che riguarda le finalità di crescita sociale e le positive ricadute sui visitatori, pur rimanendo dubbiosi sul tema della valorizzazione economica.

In conclusione, la Corte dei conti non riterebbe qualificabile la figura del danno erariale nel caso di concessione a canone zero per la riproduzione del bene culturale, in quanto il ritorno economico basato sulla vendita della singola immagine digitalizzata appare un sistema anacronistico e antieconomico (come, altresì, dimostrato da analisi di mercato) e quindi si ritiene utile privilegiare eventuali entrate connesse all’offerta di servizi complementari ad alto valore aggiunto (come suggerito, d’altronde, dal Cons. 53 della direttiva 2019/790/EU).

 

Immagine: Corte dei Conti - Sede centrale di Viale Mazzini a Viale Giuseppe Mazzini, n. 105, Roma, 9 September 2015, di Carlo Dani, rilasciata con licenza CC BY SA 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *